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EDITING DEL DNA MITOCONDRIALE

I mitocondri sono delle strutture molto peculiari, delle vere e proprie centrali energetiche che permettono, grazie a processi enzimatici, la cosiddetta respirazione cellulare. Si tratta del processo biologico più importante che questi organelli riescono a svolgere ma non dell’unico, vi sono infatti beta-ossidazione degli acidi grassi, sintesi dell’eme, regolazione del ciclo cellulare, sintesi del colesterolo, etc.
Per espletare tali funzioni, il mitocondrio ha bisogno delle istruzioni contenute nel proprio genoma. Si tratta di un DNA differente da quello dell’intera cellula, chiamato appunto DNA mitocondriale (mtDNA), ereditato solo per via materna. Nonostante nel computo totale rappresenti solo lo 0,1% del genoma umano complessivo, le mutazioni a suo carico risultano essere la causa di molte malattie genetiche comuni. E’ facilmente intuibile che compromissioni nelle funzionalità di una struttura così importante per la cellula portino a patologie assai gravi. La neuropatia ottica ereditaria di Leber (LHON) è un esempio concreto, si tratta di una malattia neurodegenerativa del nervo ottico spesso caratterizzata da perdita improvvisa della vista in pazienti di giovane età. Sono colpiti in particolare i mitocondri delle cellule della retina o le cellule ganglionari. I trattamenti disponibili sono davvero pochi e hanno solamente il compito di attenuare i sintomi e ritardare la sintomatologia.
Negli ultimi anni, molte malattie ereditarie hanno trovato potenziali cure grazie ai nuovi strumenti di ingegneria genetica, su tutti CRISPR. La manipolazione del genoma mitocondriale era rimasta poco esplorata per via di problematiche tecniche legate alla struttura del mitocondrio stesso. Nel 2018, presso l’Università di Cambridge, è stato messo a punto un sistema molto avanzato in grado di raggiungere il DNA mitocondriale danneggiato ed eliminarlo. Si tratta dell’editor di basi di citosina (DdCBE), una macchina molecolare basata sul meccanismo di una tossina batterica. Oggi, l’impiego di questo strumento è stato testato in vivo, su modelli murini (topi), dimostrando anche in questo caso le potenzialità precedentemente intraviste.
Non si tratta assolutamente ancora di un trattamento ma di un primo passo per progettare una possibile cura. Gli esperimenti condotti fino ad ora in laboratorio sono limitati a dimostrare il funzionamento del meccanismo, sono stati infatti impiegati topi sani, non ne esistono con la stessa patologia riscontrabile nell’uomo. Il prossimo passo sarà creare modelli murini con la patologia in esame e testare il trattamento, probabilmente riscontrare gli stessi risultati anche su altri modelli animali prima di passare a una potenziale sperimentazione umana.

Questa strategia terapeutica non è applicabile solamante alla neuropatia ottica di Leber, bensì traslabile a tutte una serie di patologie metaboliche come la sindrome di Leigh, la sindrome di Pearson, l’atrofia ottica dominante (DOA-ADOA) e i disturbi da deficit di coenzima Q10. 

Siamo nel tempo in cui ogni giorno viene accesa una piccola luce e anche patologie rare, che fino a pochi anni fa (non decenni) venivano reputate incurabili, oggi vedono una speranza.

Comparso su Agenzia Eventi

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